di Anna Caterina Bellati

Volta Stellata (frammento), mosaico / mosaic,MATERIA CELESTE ragiona sull’armonia e la semplicità delle leggi naturali, a dispetto del caos apparente che regola l’universo e le nostre singole vite. Qual è la percezione che l’uomo ha del luogo in cui abita e quale la sua capacità di rivolgersi al cielo con lucida meraviglia?  Lo sguardo sulla realtà è filtrato da secoli di storia e di imprese scientifiche che hanno di continuo aggiornato la consapevolezza dell’essere qui e ora, in uno spazio dato e in un tempo preciso. Ma cosa sappiamo davvero di noi stessi e della sostanza di cui siamo fatti? Quando si scompone la materia in parti sempre più piccole, alla sua radice si trovano delle relazioni matematiche. Eppure il mondo come si manifesta davanti ai nostri occhi è fatto di colori e principi diversi, di suoni e sentimenti, forme e pensieri. Davvero si tratta soltanto di numeri? La ricerca dei segreti del cosmo è un’inesauribile fonte di domande e risposte che generano altri quesiti di volta in volta più raffinati e impalpabili. La verità ultima forse non è attingibile ma la curiosità ci spingerà oltre. Questa mostra prova a raccontare qualcosa sull’animo umano mai stanco di scrutare dentro e fuori di sé quale sia il proprio destino. 

Nell’età più fulgida dell’arte bizantina (VI secolo d.C.) il cielo delle pitture e dei mosaici, idonei a incarnare la trascendenza, è intriso di astratto simbolismo e i rapporti spaziali, tra mondo e figure che lo animano, non parla del naturale ma del soprannaturale. Costruito con tessere dorate, l’universo è delimitato da ciò che l’occhio umano può vedere, mentre la luce del sole irradia sull’intero mondo la forza e il calore divini. Bisognerà aspettare Cimabue perché i protagonisti di un dipinto abbandonino la fissità dello sguardo e della postura diventando attori di un discorso, quello tra la terra e il cosmo. Materia Celeste indaga questo viaggio. Il colloquio con quel che ci circonda è in continuo divenire ma non c’è dubbio che per la scienza e, di seguito per le nostre vite, la chiave di volta sia stato il passaggio rivoluzionario dal sistema tolemaico a quello copernicano. Non più collocato al centro dell’esistente, ma relegato al ruolo di abitatore di un pianeta fra i tanti, l’uomo si è sentito spiazzato e ha dovuto fare i conti con la propria debolezza, ignoranza e paura. Il nostro pianeta non è che uno dei tanti mondi possibili (o impossibili) e neppure il migliore. Così gli uomini da dominatori sono stati ridotti ad attori su un palcoscenico molto più stretto e corto del previsto.

“Senti tu questo suono piacevolissimo che fanno i corpi celesti coi loro moti?”, chiede la terra alla luna nell’attualissima prosa di Leopardi (Operette morali, Dialogo della Terra e della Luna, Milano, Mondadori, 1979). A Dania Zanotto la mostra affida il compito di dire la sorpresa di queste due signore del creato che confrontandosi comprendono di essere diverse eppure accomunate dalla medesima sorte, girare intorno al sole legate in modo indissolubile. L’artista di Treviso manda in scena una installazione bianca e splendente. Sorella luna somiglia a una sposa devota che raccoglie le lacrime degli amanti, i versi dei poeti, le inquietudini dei filosofi, le richieste degli studiosi. I lavori di Zanotto sono simulacri dello spirito costruiti con pazienza impiegando resine, colle, pietre, fili di metallo, piume, vetri consumati dall’acqua del mare, coralli, perle. Dal nulla nascono stoffe naturali che diventano tessuti per abiti sciamanici appartenuti forse a divinità greche o a condottieri arabi, a imperatori romani o a sovrani inca; a sacerdoti di religioni rivelate o ad adoratori del sole. Quello che rende queste opere universali è la loro soave ma forte capacità di ricondurre il terreno al celeste, il contingente allo spirituale. E la coerenza di questi lavori stupisce tanto più perché non si impongono per il loro peso, ma per la loro leggerezza. Ricamati, intarsiati con materiali diversi, incrostati di minuscoli interventi ad ago, questi abiti raccontano qualcosa di noi senza fare rumore, senza giudicare né indicare un cammino.

“La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte.”, scrive Céline in Viaggio al termine della notte (Voyage au bout de la nuit, 1932). 

Marco Martelli documenta il cielo della modernità. Appoggiati dentro il blu profondo di una notte a Lisbona, o quello velato di sfilacci nuvolosi nell’autunno di Milano e ancora nel turchese di un mattino a New York, o nella luminosa sera estiva di Torino, come nel freddo intenso di Stoccolma o nel tramonto dorato di Londra, scorci di palazzi sbucano da un angolo basso della tela e sfidano silenziosi la vertigine. Non si tratta di interi caseggiati o di building dalla struttura svelta e razionale, Martelli dipinge con meticolosa precisione solo gli ultimi piani di costruzioni simboleggianti un luogo preciso ma non è interessato allo loro funzione reale, poco importa si tratti di una fabbrica o di un deposito di merci; di una casa nobiliare o di un mercato coperto, la loro funzione è qui riassuntiva. A queste forme, opera dell’ingegno umano, si affida il compito di scandire lo spazio nell’eterna contesa tra pieno e vuoto, presenza e assenza di materia. Così la pittura si presta all’indagine metafisica pur conservando quel tanto di magia che rende sopportabile l’inevitabile finitudine.


“Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c’era più.” (Giovanni di Patmos, L’Apocalisse, 19:7- 9; 7:13-17; Ro 8:17-18) 

Il Giudizio universale ispirato allo scritto attribuito a Giovanni di Patmos è l’affresco che Michelangelo (Caprese, 1475 - Roma, 1564) realizzò tra il 1536 e il 1541 per decorare la parete dietro l’altare della Cappella Sistina (Musei Vaticani, Roma). È la più spettacolare rappresentazione della parusia, l’evento dell’ultima venuta di Cristo alla fine dei tempi e segna una svolta nel pensiero filosofico. All’uomo sicuro di sé dell’Umanesimo e del primo Rinascimento si sostituisce la percezione caotica e delirante di un mondo travolto dalla totale assenza di certezze. 

La scultura pensata da Ettore Greco per la mostra, Apocalisse, riprende il tema di quella deriva e ricalca lo strazio della nostra razza che a partire dalla seconda metà del Cinquecento si costringe a guardare il cielo con occhi nuovi.

La teoria eliocentrica pronunciata da Niccolò Copernico (Toruń, 1473 - Frombork, 1543), per cui il Sole si trova al centro del proprio sistema, sconfigge il geocentrismo che pretendeva la Terra regina dell’universo conosciuto. L’età della Scienza è cominciata e il problema cosmologico influenzerà da qui in poi ogni tipo di ricerca, arte compresa. Greco affronta la disperazione umana davanti al baratro del nulla aggrovigliando uomini e cavalli in corsa verso l’abisso. Questo lavoro dell’artista di Padova riprende i temi della morte e della dannazione eterna che avevano tormentato Auguste Rodin (Parigi, 1840 - Meudon, 1917) nel realizzare la Porta dell’Inferno, il testamento di una vita. Lo scultore veneto recupera dal suo ideale maestro la meditazione plastica ma il ritmo delle figure è del tutto contemporaneo; nelle membra che si schiacciano avvilendo altre gambe e altre braccia, nelle zampe degli animali scalcianti si sente la necessità della fuga. Il nuovo, rispetto alla crisi esienziale scoppiata nei primi vent’anni del Novecento, è che l’uomo di oggi non è più neppure in rivolta, è solo spaventato.

“L’universo, un congegno escogitato per l’eterna meraviglia degli astronomi.” (Arthur C. Clarke, Vistas in Astronomy, 37, 1993) Secondo la scienza si definisce vita il raggiungimento di un livello di organizzazione complessa all’interno di un sistema fisico. Per gli uomini pensare a se stessi in questi termini non è facile. Quel che conosciamo degli esseri viventi, che studi intersecati di numerose discipline hanno misurato e contato in termini reali di qualità e quantità, è limitato alla biosfera terrestre. 350mila specie vegetali, 1.200mila specie animali delle quali più di 800mila sono insetti, oltre a 100mila microorganismi. E poi ci siamo noi, l’unica specie in grado di alzare lo sguardo verso il cielo. All’uomo spetta il diritto, con tutte le paure connesse a questo gesto, di domandarsi quale sia il proprio posto nell’universo. Questa peculiarità impone il distinguo tra guardare e vedere. La differenza è sostanziale e mette in campo il bisogno di andare oltre, non accontentandosi di rimanere vivi. 

Alberto Salvetti raccoglie questo fascio di dati e li interpreta in tre pani di argilla. Lo scultore vicentino espone la materia quasi cruda e le impone l’ipotesi cristiana della creazione. Tra le differenti concezioni relative a questa entità provvista di consistenza fisica, dotata di peso e di inerzia, capace di adeguarsi a una forma, concepita o come sostrato concreto di oggetti e sostanze; o come principio passivo rispetto alla forma; o ancora come concetto contrapposto allo spirito, Salvetti mette insieme i due valori di materia e anima. Un pane di argilla mostra una miriade di uomini della dimensione di un pollice, il nostro pianeta sovrappopolato visto dallo spazio. Un secondo pane porta impressa la Tavola Periodica degli Elementi con distanze “88 88” dove andranno, nel tempo, a iscriversi gli elementi ancora da scoprire nello spazio. Il terzo pane è graffiato da disegni di animali e piante, a indugiare sulla domanda: quanta vita c’è, oltre il mondo conosciuto?

“Il fuoco non è stato creato da nessun dio né da alcun uomo, ma è stato, è, e sempre sarà una fiamma eternamente viva che si accende e si spegne secondo leggi proprie.” (Eraclito, Frammenti). Anche i corpi in divenire di Mauro Benatti, lo scultore di Airuno al quale questa mostra è dedicata, nascevano dall’equilibrio instabile tra materia, filosofia e storia dell’arte. Le pietre, le tele metalliche, il ferro, la carta sono stati gli ingredienti assoluti delle sue costruzioni aeree create nello studio in riva all’Adda, il fiume che per secoli ha nutrito la sensibilità di tanti artisti, a partire da Leonardo fino a tutto il Naturalismo lombardo, giungendo con Morlotti all’Informale. Nel lavorare un sasso o nel trarre dal metallo sinuose figure femminili ispirate alle Bagnanti morlottiane, Benatti non lasciava nulla di intentato. Basandosi sulla conoscenza profonda dei materiali e mosso da un’inesauribile curiosità intorno ai meccanismi della natura, la sua ricerca era affidata alle possibilità che il fuoco e le reazioni chimiche connesse offrono a chi sperimenti empiricamente. Di qui scaturivano le sculture quasi volanti colorate di blu, verde salvia, bronzo, oro. Delicate e impalpabili, richiamano alla memoria tutto quello che conosciamo delle divinità antiche e recuperano la tensione alla bellezza come elemento salvifico e insieme strumento di consolazione della carne. Quasi bozzoli di farfalla raggomitolati sulla terra, gli esseri umani cercano di sollevarsi verso l’infinito.

“Il tempo è la misura del movimento secondo il prima e il poi.” (Aristotele, Fisica, IV) La vita non accade ovunque. Non sarebbe possibile neppure sul nostro pianeta se il sole si trovasse un po’ più vicino o più lontano, fosse più caldo o più freddo. In tal caso sulla terra non crescerebbe un solo fiore. Non ci è dato sapere se da qualche parte nell’universo ci siano altre forme viventi ma certo se altrove si dà qualcosa di analogo al mondo come lo conosciamo, ciò avviene nei paraggi di una stella simile a quella che ci riscalda. Sono stati necessari oltre quattro miliardi di anni perché l’uomo evolvesse dalle molecole iniziali. Questo periodo, detto tempo-scala, è necessario perché si manifesti l’esistenza anche nella risoluzione più minima. Paola Giordano prova a immaginare un cosmo abitato. Nelle sue opere l’abbandono della rappresentazione mimetica della realtà oggettiva lascia spazio a una ricerca che si nutre di concetti formulati attraverso l’impiego di materiali di recupero, chiodi, molle, puntine da disegno, collocati dentro una pittura fortemente gestuale. La radicale semplificazione della forma è sostenuta dal violento impatto cromatico. Il nero, il bianco e il rosso sono i tre colori cardine dell’artista italo-americana che su questa tavolozza semina la propria sfida biologica. Nel terriccio costituito dalla tela impregnata di pittura crescono rose industriali talvolta rese muliebri da inserti di stoffa. Il tema del fiore/donna è la costante progettuale del suo lavoro. Se mai lo spazio intorno a noi dovesse partorire qualcosa di vivo, si tratterebbe comunque di un pensiero femmineo, capace di distribuire gentilezza nel magma pietroso circostante.

“C’è un’invisibile forza (...) che tiene unito il tutto del mondo.” (Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Utet, I, 6, 47)

La nascita dell’astronomia moderna si deve al cambiamento di un pensiero. Newton scopre e afferma la gravitazione universale operando una sintesi tra la meccanica celeste e quella terrestre. Dopo l’impresa di Galileo, per cui i fenomeni del cosmo si possono spiegare grazie all’osservazione di uno spettatore abitante su una Terra in movimento, il filosofo nato a Woolsthorpe, nel Lincolnshire, comprende che quella forza per cui i corpi cadono dall’alto verso il basso sul nostro pianeta, è la medesima che tiene in orbita quel che naviga e nuota nello spazio.

Marialuisa Tadei manda in scena un’opera dedicata alla rivoluzione newtoniana. Dodici anelli di alluminio fuso e dipinto in verde, giallo, blu e rosso, pendono sospesi a cavi d’acciaio creando ombre che suggeriscono la traiettoria di corpi rotanti intorno al proprio sole. La scultrice e performer riminese, di solito impegnata con installazioni che si concentrano sulla sfera della fede e delle insicurezze umane, propone qui un lavoro di grande impatto che guarda inoltre all’idea kantiana di un universo costituito da una progressione infinita di mondi, prodotto della nebulosa primordiale che avrebbe poi generato anche il nostro sistema solare, con i suoi pianeti e i suoi satelliti. Nel mutare della luce a seconda dell’ora, Traiettorie stellari interroga il cielo per sapere se infine tutto quell’andirivieni di oggetti, meravigliosamente organizzati nel vuoto, sappia di noi e del nostro cuore inquieto e quale sia il nostro ruolo nel meccanismo celeste.


“... dove la luce non è più unica e si verificano effetti multipli, nasce l’impressione.” (Emile Zola, Manifesto dell’Impressionismo, mostra nello studio di Nadar, Parigi 1874) 

Qualunque essere vivente dotato di occhi guarda il mondo grazie alla luce. Newton la definisce come materia fatta di corpuscoli dalle diverse tonalità, ma in seguito si è scoperto che esistono colori cangianti spiegabili attraverso la teoria ondulatoria. Ecco perché si parla di dualismo della luce. Si tratta di corpuscoli o di onde? Dipende dai fenomeni osservati. Il mistero è nel fotone, introdotto dalla meccanica quantistica. Un fascio di luce, a seconda della sua intensità, è costituito da un numero impressionante di onde elettromagnetiche oscillanti e i colori che vediamo dipendono dalla rapidità di queste oscillazioni. I primi pittori a collegare il tema della sostanza luminosa con il proprio lavoro sono stati gli impressionisti. Quel che gli occhi percepiscono sono le impressioni visive dell’insieme dei colori, ma il risultato cambia con il mutare dell’ora del giorno e della stagione.

Katja Bernhard, artista austriaca di formazione classica, sperimenta in forma contemporanea la lezione impressionista. L’infinita possibilità nell’uso dei colori (anche quelli complementari) permette alla superficie dell’opera di acquistare autonomia rispetto alla realtà, legandosi solo all’emozione di chi guarda. Informale sia nella scelta stilistica che nell’impiego della luce, il lavoro di Bernhard viene da profonde esperienze personali, mesi di isolamento in luoghi di grande sole per guardare, quasi respirare, il soggetto da travasare sulla tela. Il risultato è una mistica della materia pittorica dalla quale emergono storie e passioni. 

“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È ora di morire.” (Blade Runner, Rutger Hauer/Roy Batty)


Il cyberspazio è il dominio che impiega elettronica e spettro elettromagnetico per immagazzinare, modificare e distribuire informazioni utilizzando le reti informatiche e le loro infrastrutture fisiche. Viene percepito come una dimensione immateriale che permette ai computer di tutto il mondo di comunicare fra loro. Questo crea una relazione immaginifica tra gli utenti del pianeta. Il termine viene coniato all’inizio degli anni Ottanta nella fantascienza cyberpunk di Gibson che concepì tipi di realtà virtuale condivisibile da utenti profondamente immersi in luoghi solo mentali. 

Marco Bolognesi racconta un futuro abitato. I suoi set fotografici dicono una società in bilico tra guerre razziali e culture multimediali nella quale si parcheggiano sogni e astronavi city-car in centri commerciali aperti su satelliti artificiali. I volti bellissimi delle modelle che popolano quest’universo portano amuleti, monili, accessori, maquillages che riassumono epoche, avvenimenti, situazioni e paradossi della storia umana. Lo stile dark e il clima futuristico dei lavori del fotografo e film-maker bolognese fissano lo standard di un’arte proiettata nel cosmo che coniuga armonia e paura, bellezza e immaginazione, coraggio e arroganza della nostra razza. Le humandroid di Bolognesi testimoniano qualcosa che ancora deve realizzarsi ma hanno memoria di accadimenti già inscritti nella polvere dei secoli. E l’energia che queste figure sprigionano ha il potere di legare il prima e il poi di un mondo quantico in cui ogni particella conserva i segni del passato, mentre ciò che sappiamo di noi stessi si fa distante.

Più il cielo si allontana, più l’universo si apre davanti ai nostri occhi. Ma sapremo conservare la tenerezza?

Noi di fronte al cielo

Anna Caterina Bellati

Venezia, Isola d’Oro, Marzo 2015

Immagine: Volta Stellata (frammento), mosaico / mosaic, Mausoleo di Galla Placidia, Ravenna (Italy)